Il gioco della sabbia - Ezia Palma Psicoterapeuta

Dott. Ezia Palma Psicologa, Psicoterapeuta.
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IL GIOCO CON LA SABBIA


 
 
L’ingrediente fondamentale del “Gioco della sabbia” è dunque il gioco. Un gioco che non è propriamente un gioco poiché esso si presenta come una possibilità da offrire al paziente per fare esperienza dei propri contenuti psichici giocando, nel senso di fare con le mani qualcosa. Questo qualcosa è costruire una scena dentro la sabbia,  Un “gioco” quindi che si esplica attraverso il contatto con la materia (sabbia, terra, acqua) che inizia con il movimento delle mani che cercano, modellano e costruiscono.
Le mani si muovono, camminano, come narra una vecchia leggenda africana che: “… Per ascoltare la terra, gli spiriti e gli antenati, bisogna camminare con le mani. Attraverso le vene le orecchie si mettono in ascolto e attraverso gli occhi e il corpo il cuore si apre a ciò che è dimenticato, visibile e invisibile”.
Un contatto con la materia quindi, che inizia con il movimento delle mani che “smuovono” la terra e con essa le energie psichiche, orientandole verso i contenuti interni e nello stesso tempo mettono in moto, attivano una comunicazione corporea, nel senso che dà, restituisce la parola al corpo ristabilendo l’unicità della persona.
La manipolazione della sabbia-terra attiva il livello corporeo e lo mette in relazione con le emozioni, con gli affetti, attraverso la sensazione tattile e proiettiva delle mani che giocano, e del corpo che si muove nel cercare oggetti consoni alla costruzione della scena, unitamente alla percezione visiva dello sguardo che accompagna il movimento del dare forma al gioco, permettendo un ritorno alla dimensione originaria del rapporto con le emozioni. A quelle emozioni “pietrificate” e rimaste imbrigliate nell’evento da cui è scaturito il sintomo. Come un ritornare nel “luogo” della sofferenza, una regressione controllata, come direbbe Winnicott, che passa attraverso e con il contatto con la materia che si fa immagine, e che libera le emozioni imprigionate dagli eventi del passato permettendo il rifluire di nuove energie intorno al potenziale creativo (D. W. Winnicott, 1974).
La rappresentazione dell’evento psichico che il paziente inscena, costruisce nella sabbia, rivela e dispiega qualcosa di più complesso rispetto all’evento stesso; essa offre un materiale più armonioso, più ricco di valori affettivi e più articolato nel senso che in essa appaiono simboli che possono essere riferiti a un vissuto antico, cioè al passato, in un contesto completamente nuovo e protetto; simboli che si riferiscono al quotidiano e che contengono anche elementi del problema, cioè del sintomo; simboli che hanno una valenza transferale e che hanno a che fare con la relazione terapeutica, e simboli che alludono, anticipano la risposta cioè la via da percorrere per procedere nel percorso di individuazione. In essa appaiono anche simboli che rimandano a quelle forme di immagini primitive, arcaiche già esistenti alla mente, a quelle forme primarie e più profonde della psiche dove opera una “animazione inconsciente dell’archetipo” (C. G. Jung, 1935).  
Sono tutti contenuti che ritroviamo nei sogni che il paziente porta in analisi, ma a differenza del sogno il lavoro con le sabbie evidenzia anche qualcosa di diverso, in ragione del fatto che il paziente racconta di sé senza il tramite del sapere del terapeuta poiché è la sua fantasia che opera: è ciò che agisce in lui che crea una sorte d’incontro ravvicinato tra l’Io e  l’inconscio. L’autocreazione scenica avviene con un Io desto, anche se non consapevole, che partecipa in diretto confronto con i complessi psichici sul terreno della fantasia, la personalità conscia e quella inconscia del soggetto che costruisce, confluiscono in un prodotto che è comune ad ambedue e che le unifica. Conscio e inconscio si mescolano, si fondono, si ricongiungono, si parlano come dice De Luca Comandini su una scena comune dando luogo alla risoluzione degli opposti (F. De Luca Comandini, 1992). Crea inoltre una evoluzione immaginifica, attraverso il divenire del processo, innescando una continuità creativa tesa verso il Sé. Sono elementi questi che rendono avvicinabile il “Gioco della sabbia”, anche se ben distinto, all’immaginazione attiva di cui parla Jung. Inoltre la condivisione delle fantasie creatrici del paziente, che si esplica attraverso la materializzazione della materia inconscia, rappresentata nella e con la costruzione della scena in presenza del terapeuta, rende il contenuto inconscio meno drammatico rispetto al sogno e quindi più sostenibile-comprensibile dal paziente stesso (Gruppo di ricerca, Zollikon, 2000, M. Kalff).
L’esperienza che il paziente fa attraverso l’atto creativo del fare, cioè costruire la scena, non richiede né significato, né spiegazioni, né tanto meno interpretazioni, è una raffigurazione che non viene mai interpretata dal terapeuta, come dice Dora Kalff. “Non è necessario esternare al paziente le sue esperienze transpersonali per integrarle nella vita di tutti i giorni. L’integrazione segue un corso interiore che si esplica attraverso l’evoluzione del processo, il quale si muove verso lo sviluppo di nuove energie prima sconosciute e che si manifestano all’improvviso cambiando la consapevolezza rispetto alla vita di tutti i giorni” (D. Kalff, 1974).
Un contenuto psichico rappresentato nella sabbiera può raggiungere livelli consci anche dopo alcuni mesi dalla sua realizzazione (D. Kalff, 1974; F. Montecchi, 1993); una paziente riportò un contenuto espresso in una scena dopo tre mesi dicendo: “Sa, ho capito ora il messaggio dell’immagine nella scena, anche se nel mio comportamento molte cose sono già cambiate da tempo”. In tal senso il paziente diventa consapevole, o conscio in senso non verbale, di ciò che proviene dall’inconscio e nello stesso tempo rafforza la fiducia nelle sue capacità guaritrici interiori essendo lui l’unico vero artefice della sua “guarigione”.
Un altro elemento che è quasi sempre presente nel setting del “Gioco della Sabbia” è il silenzio. Man mano che il lavoro procede il paziente viene assorbito totalmente dal silenzio. E’ un silenzio che non è vuoto, ma un silenzio che crea movimento, che sposta il livello di comunicazione su un altro piano, direi più profondo, proprio perché determinato dal silenzio, dove si innesca una modalità di ascolto più sottile. Il paziente è in ascolto di se stesso, dell’altro e di quello che sta emergendo dall’attività delle sue mani, un’attività indispensabile perché urgente e ineludibile che tende a stabilire un ordine nell’universo, apparentemente paradossale, degli opposti complementari: coscienza e inconscio, personale e collettivo, relativo e assoluto, senza averne coscienza, ma che egli può cogliere e apprendere attraverso l’esperienza che ne scaturisce dall’azione del rappresentare perchè la fonte originaria è un sentire ( M. Zambrano, 1961).
Anche il terapeuta è in ascolto di se stesso, dell’altro e di quello che si sta realizzando nel quadro. Questo essere in un’unica compartecipazione emozionale mette in movimento delle energie intorno a quello che sta accadendo non solo nella scena, ma anche in ciascuno dei due che fanno parte dell’evento e cioè del paziente e del terapeuta, spinti reciprocamente dalla medesima motivazione, la ricerca di una ricomposizione della frattura che ha originato la ferita (G. Lai, 1988).
Una ricerca che si inoltra nei luoghi invisibili dove dimorano, scorrono, si animano i significati nascosti dell’interiorità, che nel loro mostrarsi attraverso l’accadere nell’immediatezza dell’incontro, del qui e ora, possono attivare dentro ciascuno dei due quel sentire insieme, quel essere in compresenza come dice M. Zambrano, da cui scaturisce l’esperienza.
Con il “ritiro” della parola la relazione quindi si concentra e si sposta, come dicevo, su un altro piano, meno “fisico”, in cui viene a crearsi uno spazio che non è né propriamente fisico né mentale, uno spazio vuoto-pieno simile a uno stato meditativo, uno stato meditativo attivo come dice Martin Kalff, in cui l’essere in condivisione si amplifica e si concentra su un piano più intimo e profondo, nel quale può determinarsi uno “spazio” esperieziale della realtà nella sua intensità e profondità e che sembra essere altro che vibrazione, sentire puramente passivo, ma che si trasforma in attività attraverso il “fare” esperienza del “sentire” l’ineffabile (N. Scwartz-Salant, 1986, M. Zambrano, 1961).
Uno “spazio” in cui si possono verificano momenti sincronici profondi poiché vengono a intrecciarsi e a fondersi le esperienze di entrambi i “viandanti” e dove l’inesprimibile sperimenta una nuova modalità di elaborazione sia per il paziente che per il terapeuta.
La modalità di esperire la realtà attraverso il sentire  come dice Buttarelli sottopone a un rischio continuo, il rischio dell’incontro, rischio che è conficcato nel presente; ma non c’è modo di fare esperienza se non riguadagnando la capacità poetica di  “sentire” (A. Buttarelli, 2004).
Il movimento di “andare a pescare” nel labirinto della psiche attraverso la modalità del fare esperienza facendo, è una modalità di esperire l’interiorità che facilita, attiva, mette in moto una modalità esperienziale unica per il paziente, in ragione del fatto che nello “scendere”, nell’immergersi nell’oscurità dell’inconscio egli non è solo, c’è anche l’altro, il terapeuta, colui che “sta in presenza”, che accompagna e sostiene prendendosi la responsabilità di guardare l’indicibile, l’inesprimibile e di accoglierlo nell’atto del suo apparire condividendone il peso. Questo crea fiducia, curiosità nell’altro che non necessariamente sfocia nella benevolenza dell’essere in comunione. Molte volte è una sfida, una provocazione, ma è proprio l’imprevedibilità dell’altro che mette in moto la creatività del terapeuta nell’escogitare possibilità, modalità, sentieri nuovi.
Anche per il terapeuta che partecipa alla nascita dell’evento psichico, attraverso la rappresentazione simbolica nella scena, è un evento eccezionale. In quanto spettatore attivo-passivo egli si lascia condurre dall’altro nelle regioni sconfinate dell’interiorità come co-autore di un processo di costruzione della realtà, che contiene in sé passato e presente, invariabilmente determinata dalla sua interazione con il paziente e dall’attivazione degli schemi relazionali di entrambi, ed esperisce con l’altro come un complesso, una emozione, un vissuto si modella e prende forma nel suo manifestarsi attraverso il linguaggio simbolico.
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